Quali speranze in un futuro migliore ci sono per i nostri giovani?
Scuole chiuse, didattica a distanza, difficoltà ad accettare una situazione che impone distanziamento e cambiamento delle abitudini hanno portato nei giovani una sensazione di scoramento e, in alcuni, la crescita di una rabbia repressa che trova sfogo nelle risse che scoppiano senza preavviso nei luoghi pubblici delle nostre città piccole e grandi o in atti di autolesionismo. I NEET (Not in Education, Employment or Training, persone in età compresa tra 15 e 29 anni) sono 2,2 milioni secondo l’ISTAT, dato che ci attribuisce un primato non invidiabile in Europa.
Ma è solo l’istruzione a preoccupare i nostri ragazzi o piuttosto l'incertezza, la mancanza di prospettive concrete e la conseguente difficoltà di immaginare una vita propria fuori dalla protezione della famiglia?
Cominciamo a considerare la situazione del mondo del lavoro: certo, in generale, la crisi innescata dalla pandemia ha creato nuove povertà e messo a repentaglio una grande quantità di posti di lavoro che, per ora, sono salvi solo grazie al blocco dei licenziamenti. Ma se invece di guardare al lavoro come un mercato indistinto lo spacchettiamo in settori e da questi guardiamo allo stato delle imprese al suo interno, possiamo vedere che ci sono situazioni in controtendenza ed imprese che hanno saputo cogliere l’incertezza della pandemia come occasione di rinnovo e, addirittura, come opportunità di crescita.
Per una volta non mi riferisco al variegato settore ITC (Information & Communication Technology), che in generale è cresciuto anche durante la pandemia, ma ad imprese tradizionali, medie, piccole e giù giù fino a quelle artigianali e commerciali, che in alcuni casi hanno saputo cogliere le opportunità del “digitale” affrontando la crisi meglio di quelle che hanno sempre pensato “non fa per me”. Le prime, seppure non in grado di affrontare ingenti investimenti, hanno saputo contrastare le chiusure forzate con l’ingegno e l’arte di fare molto con poco.
Volete degli esempi? Il negozio di abbigliamento che, durante il lockdown, ha cominciato a pubblicare su Instagram gli “outfit” (il termine inglese descrive un corredo ben assemblato di abiti ed accessori) un po’ per gioco ed un po’ con l’intento di sondare il mercato degli amici, offrendosi di consegnare a domicilio ordini raccolti via Whatsapp. Dunque, nessun investimento in costosi sistemi eCommerce, ma solo un’intuizione in un momento di difficoltà. Il risultato: il negozio è stato inondato di ordini e ha venduto bene anche durante il lockdown. Alla riapertura, il numero dei clienti è sensibilmente aumentato rispetto al periodo precedente, il negozio ha fatto ricorso all’assunzione di nuovo personale ed è attualmente impegnato a trasferire l’attività in un negozio più grande (a proposito: questa è la dimostrazione che l’on line non soffoca i punti vendita fisici ma, al contrario, ne può garantire lo sviluppo).
Un altro esempio è quello del mio barbiere: l’ingresso nell’attività del figlio del titolare ha portato una ventata di novità che non si è ancora esaurita: dall’invenzione di un nuovo logo bene in evidenza all’esterno (riportato anche sulle divise indossate in negozio), al nuovo merchandising personalizzato (borse, adesivi, penne e calendari) dall’offerta di prodotti specializzati di qualità per la cosmesi maschile ai cambiamenti dell’ambiente, sono molti i fattori che hanno contribuito alla percezione del cambiamento. Ma il fattore determinante è anche in questo caso il ruolo essenziale giocato dall’online: politica di branding, pubblicazione su Instagram dei tagli eseguiti, prenotazione via Whatsapp degli appuntamenti, nuova pagina Facebook. Risultato: significativo aumento della clientela e flussi di cassa in crescita, nel rispetto delle disposizioni anti Covid che hanno spinto verso una maggiore efficienza ed una migliorata attenzione al cliente (niente più code per l’attesa del proprio turno perché si accede solo su prenotazione).
Due esempi che testimoniano la possibilità di cambiare (migliorando la propria posizione) anche in situazioni di grande difficoltà come quella che la gran parte delle attività commerciali sta attraversando (eviterò di usare il termine “resilienza” perché mi fa venire l’orticaria).
Alla base di questi risultati c’è la capacità di vedere nel digitale gli strumenti per raggiungere un’audience più ampia, offrendo qualcosa di inedito: negli esempi citati gli “outfit” preconfezionati con gusto o i tagli alla moda che ispirano chi desidera rinnovare il proprio look. Ma gli esempi potrebbero continuare ed a fattore comune ci sono l’intraprendenza, il coraggio di osare e l’entusiasmo di una nuova generazione di imprenditori. Queste sono le doti che, nel periodo del boom economico degli anni Sessanta, hanno permesso al nostro paese di entrare tra le grandi potenze economiche mondiali. Si potrà obiettare che allora le condizioni erano diverse, ed è certamente vero che per un paese che partiva dal disastro economico del secondo dopoguerra e che aveva bisogno di tutto, le occasioni di lavoro si sprecavano, mentre oggi è sempre più difficile creare lavoro o trovare lavoro. Ma gli italiani hanno smesso ben prima della pandemia di guardare al futuro con speranza, ed il paese sembra guardare a sé stesso con rassegnazione, come se fosse di fronte all’ineluttabilità di un declino irreversibile.
Forse il problema è proprio quello di avere troppo spesso depresso, se non addirittura ucciso, le speranze di un futuro migliore per i nostri giovani. Certo, non tutti hanno la capacità e la voglia di intraprendere, ma di fronte alla situazione del paese questa potrebbe essere comunque una strada da prendere seriamente in considerazione per i giovani in cerca di realizzazione. Il lavoro dipendente, infatti, non sembra in grado di offrire possibilità analoghe neppure ai giovani che hanno investito nella propria formazione con la speranza di accedere ad un impiego qualificato e ben remunerato, considerando che le retribuzioni dei primi anni di lavoro sono oggi inferiori del 25% rispetto a quelle di chi ha cominciato a lavorare vent’anni fa. Quando la crescita delle retribuzioni nel corso della carriera incrocerà (se mai ciò accadrà) quelle dei propri predecessori?
Abbiamo tutti conoscenza delle difficoltà che si incontrano ad entrare nel mondo del lavoro anche se laureati, seppure chi ha un titolo di studio nelle materie scientifiche (STEM) abbia maggiori possibilità rispetto ad altre discipline. Ma le carriere che una volta erano più rapide oggi sono rallentate sia per il ritardato rinnovo generazionale conseguente all’innalzamento dell’età pensionabile sia come effetto della trasformazione digitale, che se da un lato crea nuovi posti di lavoro, dall’altra ne distrugge almeno altrettanti. Resta il fatto che le competenze "digital" costituiscono un fattore accelerante (un "boost") per la carriera.
Un amico imprenditore, che ha saputo costruire negli ultimi vent’anni il proprio successo partendo da un’idea originale (selezionare e formare ingegneri nei paesi dell’est, dove le opportunità di lavoro erano scarse e gli stipendi una frazione di quelli dei paesi sviluppati) è tra quelli che sostengono che per l’Italia il bello sia ormai alle spalle e che se un giovane desidera un futuro è bene che lo cerchi fuori dai nostri confini.
Non è facile contrastare questa opinione, ma io sono invece convinto che dobbiamo avere fiducia nella capacità dei nostri figli di invertire la tendenza, originando nuove opportunità per sé stessi (e per altri che potranno unirsi a loro) anche grazie al fatto che questo è un paese pieno di risorse e di eccellenze insospettabili.