Perchè Smart Working non è lavorare da casa
In questa fase sospesa tra la speranza per il futuro, in cui i rischi legati alla diffusione del virus siano mitigati dalle campagne di vaccinazione, e le preoccupazioni per i prossimi mesi, credo abbia senso riprendere sul blog di GoodGoing un articolo che ho pubblicato per la prima volta su LinkedIn nella prima fase della pandemia. Il tema è quello dello “smart working”, su cui molti interventi hanno cercato di fare chiarezza, seppure nella vulgata si continui a chiamare come tale una modalità che sarebbe più appropriato definire lavoro a distanza.
Un'osservazione preliminare
Improvvisamente, quasi da un giorno all’altro, in una nazione (la nostra) dove il lavoro è in larga parte basato sulla presenza fisica nel proprio ufficio, è retribuito in base al tempo trascorso lì (ricordiamo gli “straordinari”), ed ogni uscita dalla sede di lavoro deve essere giustificata per non rientrare tra “i furbetti del cartellino”, proprio in questo contesto, lo smart working, da modalità di lavoro sostanzialmente di nicchia, è diventato imprevedibilmente una modalità di massa.
È evidente che, sia in un primo caso, quello in cui la produttività delle aziende non sia cambiata molto con l’improvviso smart working massivo, oppure in un secondo caso, quello in cui la produttività sia cambiata, non si può evitare di riflettere sui risultati di questo esperimento nazionale (non pianificato).
Nel primo caso, se si dirà che le aziende hanno retto bene all’impatto di uno smart working improvviso ed esteso, dovremo domandarci: ma questo virus ci ha davvero fatto scoprire che eravamo già pronti, e in tanti, a lavorare in questa modalità e, semplicemente, non lo sapevamo? Allora dovranno domandarsi datori di lavoro e sindacati, cosa ha impedito loro, fino alla pandemia, di adottare estesamente lo smart working con i vantaggi che comporta.
C’è anche una seconda opzione per questo primo caso, forse maliziosa, ma non sciocca. La situazione di emergenza sanitaria e la necessità di distanziamento sociale, hanno imposto l’obbligo inderogabile di una riduzione delle presenze nel posto di lavoro; per far fronte a questa imposizione mantenendo la sacrosanta necessità di conservare il reddito a lavoratori del tutto incolpevoli, si è chiamato “smart working” una sorta di permesso retribuito, ma essendo l’efficienza produttiva ordinaria non così elevata, essa non è apparsa molto cambiata pur con una buona parte di lavoratori a casa; e per questo l’improvviso “smart working” sembrerebbe aver funzionato.
Questa ipotesi sarebbe anche in sintonia col fatto che le assenze dei “furbetti del cartellino” da uffici pubblici, ministeri, ospedali, finite spesso in prima pagina, non venivano sempre notate e segnalate subito dai responsabili.
Nel secondo caso, più plausibile, ovvero che l’improvviso smart working massivo di questi giorni abbia ridotto la produttività del lavoro, potremmo farci domande più comprensibili e logiche per capirne le ragioni, ad esempio: come migliorare ed informatizzare i processi aziendali? come informatizzare alcune competenze che normalmente risiedono nelle persone? l’informatizzazione è sufficiente allo smart working senza reti dati veloci e sicure? come possono essere integrati e misurati i contributi del lavoro remoto? e così via.
Lo smart working non è il telelavoro
In questi giorni di emergenza pandemica, la tendenza dei media alla semplificazione selvaggia di qualsiasi argomento, a volere ridurre per forza a poche righe o a poche parole ciò invece che avrebbe bisogno di più spazio e di più ragionamento (è frequente nelle interviste: “ci dica in trenta secondi…”), a voler stipare in un articolo le idee che riempirebbero un libro, facendo di quell’articolo la valigia di Mr. Bean, ha indotto ad equiparare il termine “smart working” alla locuzione “lavorare da casa”. Una semplificazione inaccettabile.
Essendo già poco chiaro l’anglicismo “smart”, soprattutto se applicato al lavoro, il pubblico accetta di corsa la traduzione più immediata in “lavoro da casa”, senza pensarci due volte; convinti poi di aver capito, si va avanti a fare discussioni o a formulare opinioni.
Ma lo “smart working” sta al “lavoro da casa”, come il “lavoro” sta al “posto fisso”.
Per lavorare è necessaria una qualsiasi competenza meritevole di essere retribuita; per avere un “posto fisso”, invece, la competenza non è sempre essenziale…
Non sono pochi, soprattutto tra gli anni ’70 e ’90, coloro che hanno scambiato avere un posto fisso per avere lo stipendio alla fine del mese; per costoro, fare poco o niente sul posto di lavoro li rende immediatamente idonei a fare lo “smart working”, nella accezione di “lavorare da casa”.
Propongo allora, per continuare a ragionare, questa definizione: lo smart working è quell’attività lavorativa nella quale la competenza per svolgerla risiede (e accompagna) chi lavora, e non necessita di un luogo specifico per essere operativa.
Faccio qualche esempio.
Il musicista che suona uno strumento fa smart working; egli infatti egli può suonare, col proprio o con uno strumento non suo, in qualsiasi orchestra, o a casa, o in piazza, e può anche tenere lezioni a domicilio. È un’attività veramente “smart”.
Ugualmente si può dire per lo scrittore, per il giornalista, per l’insegnante, per il medico di famiglia (che fa visite a domicilio), ma anche per la babysitter, la badante, chi svolge pulizie, ecc. Anche ogni artigiano fa smart working.
Un tempo praticamente tutti i lavori erano smart working; era così per il sarto, la camiciaia, il fabbro, il calzolaio, il barbiere, ecc. ecc. Tutti questi potevano esercitare la loro competenza nei luoghi dove essa serviva e poteva essere messa a disposizione. In questo senso quel lavoro si può dire autenticamente “agile”.
A questo punto, per procedere ulteriormente nel ragionamento sullo smart working, propongo la mia definizione di “smart”: un lavoro è “smart” quando esprime una competenza idonea a raggiungere in autonomia un obiettivo prefissato.
In definitiva, con buona approssimazione, si può dire che tutte le attività autonome sono “smart”; quanto poi lo siano effettivamente, dipende dalle capacità del particolare lavoratore autonomo.
Ai giorni nostri, Il problema si pone per il lavoro dipendente. Questa è la novità. E, infatti, lo smart working è una modalità di esecuzione del lavoro subordinato.
Ecco allora posto in modo corretto, a mio avviso, la questione del lavoro smart per i lavoratori dipendenti.
Smart Working e lavoro dipendente
Il lavoro manuale
Quando il lavoro dipendente è prevalentemente manuale, la verifica del risultato richiesto dal datore di lavoro è abbastanza facile.
Il caso più semplice è la catena di montaggio. Qui, ogni lavoratore è direttamente un anello necessario e insostituibile della catena di produzione per cui, se l’attività del lavoratore non è fornita correttamente (nei tempi e nel modi previsti) si riduce la produttività complessiva e l’anello debole viene subito individuato. In questo caso il margine di autonomia del lavoratore è molto limitato e la sua prestazione può essere valutata in base al tempo di lavoro. La catena di montaggio è un processo rigido che però, proprio per quella rigidità che impone predefinite azioni lavorative, ha il vantaggio di poter accogliere lavoratori con caratteristiche molto diverse e competenze non spinte, garantendo sempre un buon risultato produttivo. Nel caso appena descritto, la parte “smart” del lavoro (working) risiede nel processo della catena di montaggio, non nel lavoratore, che è solo un esecutore. In queste condizioni non può esserci smart working.
Il caso del lavoro “di concetto”
Cosa succede quando l’attività del lavoratore dipendente non è manuale ma, come si diceva un tempo, “di concetto”? In questo caso, tipico degli uffici statali e ministeriali, ma anche di molti uffici di grandi aziende. Qui la funzione della catena di montaggio è sostituita da un insieme di procedure che non devono essere interpretate ma eseguite (“la procedura dice…”). Ciò è dovuto al fatto che l’obiettivo finale dell’attività, non è noto al lavoratore dipendente (forse nemmeno al capo ufficio/reparto), il quale deve assolvere degli adempimenti i cui risultati avviano l’attività di altri lavoratori di altri uffici, e così via fino ad ottenere il risultato finale voluto dal datore di lavoro. Nelle condizioni appena descritte il solo aspetto “smart” applicabile è la remotizzazione di alcune attività procedurali, per le quali non è essenziale essere fisicamente in un luogo specifico. Ad esempio, questo è il caso degli operatori di call center, delle attività che hanno un’ampia prevalenza di “data entry”, ovvero di raccolta di dati, come può essere un’attività di sportello o di interfaccia con la clientela. In queste condizioni hanno successo le versioni “on-line” di attività in precedenza stanziali come, ad esempio, le attività delle filiali bancarie o degli uffici postali (e infatti si sono dotate di funzionali siti web o di “app”). Quando l’aspetto “smart” è limitato alla remotizzazione l’effetto delle nuove tecnologie è essenziale (linee dati veloci, informatizzazione, ecc). È necessario dire, però, che il pedissequo trasferimento delle procedure dalla carta all’informatica, non è un’operazione smart ma è un’operazione (molto) stupida. La remotizzazione/informatizzazione delle attività, per apportare un reale vantaggio, deve sempre includere la loro depurazione da ogni vincolo burocratico (tipo “nulla osta”) che, tradizionalmente, segna il passaggio della pratica da un ufficio ad un altro e determina il suo lento (e incerto) avanzamento; questo passaggio, nell’informatizzazione efficiente, dovrebbe lasciare il posto alla parallelizzazione delle attività richieste per “lavorare una pratica” o una procedura, lasciando al sistema informatico il compito della raccolta coerente e della corretta composizione dei dati e dei contributi concettuali dei operatori.
Il caso del lavoro intellettuale
Il caso più complesso, ma anche più interessante, è quello in cui il lavoratore dipendente svolge attività intellettuali, spesso non ripetitive o creative; mi riferisco ai numerosi ingegneri, fisici, matematici, chimici, biologi, ecc. ecc. che lavorano come dipendenti di grandi aziende. La maggior parte di queste figure professionali hanno contratti collettivi che valutano ancora la loro attività principalmente sulla loro presenza fisica in azienda rilevata con “timbrature” orarie, affiancata, più o meno marginalmente, a valutazioni su obiettivi individuali, comunque raggiunti generalmente con la presenza fisica in azienda. Che tipo di smart working si deve immaginare in questo caso?
Per rispondere a questa domanda è necessario porsene una propedeutica: di che cosa è fatto il lavoro intellettuale e, in particolare, quello svolto in team?
Il lavoro intellettuale ha necessariamente una fase individuale (che potremmo chiamare di studio in senso lato), nella quale la particolare competenza e l’esperienza della persona si incontra con il problema da capire e da risolvere. Questa fase, generalmente non richiede un luogo obbligato (almeno quando non esiga un laboratorio specifico); Tipicamente il lavoro informatico lascia estremamente liberi di scegliere il posto e il momento più confortevole e produttivo per questo approccio autonomo all’attività. Questa fase può essere ottimamente svolta in smart working, senza particolari esigenze organizzative.
Trattando però di lavoro in team, il cui obiettivo è comune e imposto dell’esterno (il “datore di lavoro”), l’attività intellettuale comporta necessariamente dei momenti di incontro per la verifica del grado di progresso verso l’obiettivo dato, per stimolare la creatività (brainstorming), oppure per superare difficoltà (riunioni); Questi momenti richiedono preferibilmente un luogo di incontro comune, anche se non specifico; un luogo virtuale è possibile, ma un luogo fisico, soprattutto per il brainstorming, è generalmente preferibile. Questa fase può essere svolta in smart working ma con precisi accorgimenti per le attività del team; non può essere improvvisata, pena una severa improduttività lavorativa. Verificare il grado di avanzamento raggiunto in un compito comune, esige aver definito in modo preciso l’obiettivo che ciascun componente del team deve raggiungere, come pure i tempi e la “qualità” entro i quali deve essere raggiunto. Ad ogni membro del team deve essere noto il processo aziendale del quale fa parte, e questo processo deve essere oggetto di scrupolosa definizione e manutenzione aziendale, deve prevedere precisi indicatori di prestazione (KPI = Key Performance Indicator) e strumenti di supporto alle decisioni che rendono realmente “smart” l’attività del team.
Ci sono poi le fasi di integrazione delle attività per la presentazione dell’obiettivo finale richiesto e la verifica della correttezza del risultato finale ottenuto. Queste fasi generalmente richiedono luoghi e tempi comuni e prestabiliti e una cooperazione in tempo reale. Anche questa fase può essere svolta in smart working ma richiede un’altissima organizzazione del lavoro. Faccio un esempio estremo ma chiaro; quando, durante la missione Apollo 13, arrivò al centro di controllo il famoso messaggio “Huston, abbiamo un problema”, il team del centro di controllo ha lavorato in modo eccezionalmente “smart” e il risultato fu un successo.
Alcune considerazioni
Insomma, dalle cose dette, lo smart working non si improvvisa.
Un’attività lavorativa “smart” deve essere organizzata con attenzione per essere concretamente “smart”. Come all’inizio del secolo scorso si pensavano e progettavano le catene di montaggio per coordinare le attività di molti lavoratori concentrati in una fabbrica cosi, oggi, un’attività “smart” deve essere pensata e progettata affinché sia coordinata l’attività di lavoratori con competenze diverse e distribuiti in luoghi diversi.
Come, all’inizio del secolo scorso, non era sufficiente raggruppare molti operai in un capannone per fare una fabbrica così, oggi, non è sufficiente tenere i lavoratori a casa per avere un’attività “smart”
Il contenuto di intelligenza e di organizzazione che un tempo era fisicamente concentrato nella catena di montaggio e rendeva produttive competenze semplici e non specializzate, oggi deve essere trasferito nel processo che coordina e rende focalizzato e produttivo i contributi di persone con competenze molto sofisticate e delocalizzate.
Diversamente da quanto accadeva nella produzione industriale del secolo scorso, quando al lavoratore non era concessa grande autonomia ed erano sufficienti competenze elementari per essere produttivo oggi, per essere produttivo in modo “smart”, deve essere posta particolare attenzione nella definizione degli obiettivi individuali da assegnare e nella manutenzione e aggiornamento delle competenze, che sono la vera risorsa necessaria per centrare un obiettivo in autonomia.
Infine, come un tempo era importante la struttura fisica e la razionalità degli ambienti della fabbrica per il lavoro a catena, oggi sono importanti le infrastrutture informatiche e reti dati veloci e sicure per permettere un lavoro “smart” in autonomia.
Francamente, è difficile pensare che una pandemia virale possa ottenere tutto questo in qualche settimana…
Probabilmente nelle piccole e medie aziende (PMI), dove le relazioni umane sono più forti e l’imprenditore conosce direttamente il valore e le competenze dei suoi dipendenti, lo “smart working” improvvisamente e inaspettatamente imposto dalla pandemia può avere avuto successo; in quelle realtà, infatti, il prezioso rapporto fiduciario tra imprenditore e dipendenti può aver validamente sostituito “il processo”.
Diverso può essere stato il caso delle grandi aziende e degli uffici pubblici, nei quali vecchie consuetudini (al limite del burocratico), grandi dimensioni e spersonalizzazione, possono aver reso meno “agile” il cambiamento, da lavoro basato su timbratura oraria a lavoro “smart” basato su obiettivi da raggiungere.
Probabilmente, se lo Stato fornirà rapidamente alle piccole e medie aziende il supporto economico e finanziario di cui ora hanno bisogno queste, essendo molto reattive, potranno riprendersi più rapidamente delle grandi aziende, che pure posso contare su una resilienza finanziaria maggiore delle PMI, e diffondere concretamente un modello operativo di smart working su scala nazionale.
Concludendo ...
Lavorare in smart working è lavorare come un’ape di uno sciame o come una formica di un formicaio, ognuna autonoma ma perfettamente orientata al risultato comune.
L’ape cerca il polline in autonomia quando lavora “da remoto” e sa esattamente cosa fare quando rientra “in sede”, nell’arnia.
Api, formiche, termiti, lavorano in perfetto smart working… e senza bisogno di contratti collettivi; tutto è basato su un'altissima competenza, certamente istintiva ma pur sempre competenza, e su obiettivi ben assegnati, dalla natura certo non da un processo, ma la cui esecuzione è sempre essenziale e puntuale per raggiungere l’obiettivo comune.
Per finire, ritornando alla realtà umana, lo smart working può certamente essere favorito dalla tecnologia per la parte di “remotizzazione” dell’attività, ma la parte “smart” è legata alla capacità del dipendente di lavorare, in autonomia e con competenza, per raggiungere un obiettivo personale ma imposto dall’esterno.
In definitiva, competenza ed obiettivi ben definiti sono i cardini della parte “smart” del lavoro umano.
Chi insiste a voler attribuire allo sviluppo della tecnologia anche la parte “smart” del lavoro umano, oltre a confondere la causa con l’effetto, rischia di compiere due errori: immaginare attività dove la tecnologia prevale sull’uomo e togliere alla persona la centralità e la dignità del lavoro.