Perché, oggi, il lavoro precario è così diffuso e persistente? di Sergio Vicàri

Una breve riflessione non convenzionale

Job Seeker  1

Ho pubblicato per la prima volta questo articolo a febbraio del 2019 su LinkedIn. Oggi lo ripropongo sul blog di GoodGoing! perché ritengo che sia di stretta attualità a maggior ragione in questo tempo di pandemia. Buona lettura!

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Credo sia esperienza comune constatare come, attualmente, la maggioranza degli accordi che impegnano chi offre lavoro e chi lo chiede, limitino il vincolo reciproco ad un tempo limitato (tempo determinato).

Di per sé, la limitazione temporale predeterminata di un rapporto di lavoro non è un problema; ad esempio essa è ragionevole quando si vuole verificare l’idoneità di un neoassunto a svolgere la mansione assegnata.

Ma quando si passa da lavoro a “tempo determinato” a lavoro precario?

Questo passaggio si manifesta quando, nella motivazione alla base del rapporto di lavoro, la convenienza economica di entrambe le parti ha schiacciante prevalenza sul fine del lavoro stesso.

In queste condizioni, per il datore di lavoro, la convenienza economica prende il posto della maggior qualità da raggiungere per l’obiettivo specifico della sua impresa; per il neoassunto, invece, la convenienza economica prende il posto dello sviluppo delle proprie competenze e della propria realizzazione professionale.

Se il lavoro diventa nulla di più che una fonte di reddito da massimizzare (lato dipendente), oppure un costo da minimizzare (lato datore di lavoro), allora l’equilibrio di un tale rapporto di lavoro fondato su opposte convenienze economiche diventa intrinsecamente precario, essendo sollecitato da continui confronti tra offerta e domanda.

La supremazia della convenienza economica sugli obiettivi e sui valori d’impresa è avvenuta lentamente, dalla fine degli anni ’80, con l’affermazione degli “yuppie” e dello yuppismo (https://it.wikipedia.org/wiki/Yuppie), che hanno portato ai vertici di aziende, di imprese e di istituti finanziari persone motivate dall’affermazione personale sancita da una ricchezza ostentata, arrivando ai giorni nostri, dove la forma rampante di ascesa personale ha deformato in modo diffuso, soprattutto nelle grandi aziende, gli obiettivi di impresa, trasformandoli in obiettivi prevalentemente finanziari e di breve termine.

Si può intuire, allora, la ragione per la quale l’attuale e diffusissima precarizzazione dei rapporti di lavoro riguardi tutte le professionalità: il raccoglitore di pomodori come il ricercatore universitario, l’operatore del call-center come il medico o l’infermiere, eccetera; questi rapporti di lavoro, infatti, hanno oggi in comune la convenienza economica dell’accordo, non certo l’impiego delle diverse professionalità per raggiungere l’eccellenza degli obiettivi d’impresa.

Si può anche intravedere la ragione per la quale il preponderante elemento della convenienza economica, caratterizzata dall’interesse ad avere ritorni a breve o brevissimo termine, non si attenui neanche quando la domanda supera l’offerta come accade, nel nostro Paese, per esempio nel caso di medici e infermieri, per assumere i quali si ricorre ad intermediari (esempio cooperative) che calmierano i “costi del personale”, piuttosto che attuando una seria selezione di professionisti da inserire stabilmente nell’organizzazione aziendale, scegliendoli tra i candidati più capaci di incrementare nel tempo la loro professionalità, a vantaggio del primario scopo di impresa che, nel caso di un ospedale, è quello di curare con il massimo successo e non quello di avere una gestione al minimo costo.

La "finanziarizzazione" generale delle realtà produttive, endemica ormai in tutto il mondo occidentale (e non solo) e tendente a far coincidere il senso dell’attività umana (sia essa intellettuale o manuale, creativa o ripetitiva) con quello di fonte di reddito personale, alimenta infine spinte migratorie e sciami di “cervelli in fuga”, costantemente alla ricerca della maggior valorizzazione economica della prestazione offerta.

Qualche conseguenza

Le semplici considerazioni appena sopra accennate, stimolano la riflessione su qualche conseguenza logica.

Quando la motivazione alla base del rapporto di lavoro è fondata primariamente sulla convenienza economica di entrambe le parti (quella che offre e quella che chiede lavoro), perdono immediatamente efficacia tutte le forme di incentivazione economica volte a incoraggiare la stabilizzazione del lavoro (lavoro a tempo indeterminato).

Infatti, gli incentivi stessi, per la loro natura, ricadono nel calcolo delle convenienze economiche e potranno modificare le ragioni delle assunzioni soltanto per il periodo di tempo nel quale essi sono concessi. La precarietà dei rapporti di lavoro, di conseguenza, potrà essere mitigata soltanto per il tempo di convenienza degli incentivi ma poi, essendo il lavoro posto sullo stesso piano di valore degli incentivi, le forme di contratto ritorneranno alla precarietà iniziale.

Se il lavoro, e l’attività umana in generale, tornerà ad avere un valore diverso e più alto di quello degli incentivi economici, allora questi ultimi potranno essere efficaci.

La precarietà nei rapporti di lavoro, così diffusa in Italia, crea anche un grave problema di senso del nostro Stato.

Infatti, la nostra Costituzione pone a fondamento della Repubblica il lavoro: “Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”

Se dunque il fondamento della Repubblica è estesamente precario, allora anche la Repubblica stessa, che su esso si fonda, è precaria. Non possiamo ignorare o liquidare in fretta questa conseguenza.

Sarebbe troppo semplice sostenere, contemporaneamente, una quasi sacralità della Costituzione “più bella del mondo”, e poi derubricare ad “allegoria” già il suo primo articolo.

L’aver assunto, ormai come scontato, dopo una silenziosa e lunga assuefazione, che il lavoro è nulla di più di una fonte di reddito, e che esso incide nella vita delle persone solo come strumento di sussistenza personale, conduce a ritenere, per ossequio alla Costituzione, che la nostra Repubblica è fondata più sulla possibilità di avere un reddito, piuttosto che sulla dignità di avere un lavoro.

Sembrerebbe essere un'innocua forzatura l’equivalenza lavoro = fonte di reddito, ma i recenti sviluppi politici portano ad osservare che il diritto ad un reddito (di cittadinanza oggi e prima di inclusione) sta precedendo il diritto ad un lavoro.

Infatti, non può non essere notato che si parla di “reddito” e non di aiuto.

Se dunque la causa del reddito è la cittadinanza, la quale è il vincolo di appartenenza di un individuo ad uno Stato, allora non è lontana la possibilità che si possa arrivare a riformulare il primo articolo della Costituzione come segue: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul reddito”; con l’implicazione che chi non ha un reddito (di cittadinanza) non sarebbe neanche un cittadino della Repubblica.

Le conseguenze di questa ipotetica nuova formulazione sono inquietanti.

Una considerazione personale conclusiva

La finanziarizzazione, anzi la monetizzazione dell’attività umana, sta diventando il principale indice del suo valore e il solo cardine dell’equità tra chi offre e chi chiede lavoro.

La monetizzazione poi, in modo pervasivo e apparentemente innocuo, sta estendendosi ad altri ambiti di alto valore umano; infatti, osserviamo che all’accadere di una calamità immediatamente si attiva un numero di telefono con cui donare due o più euro; se una ricerca scientifica non è adeguatamente finanziata dallo Stato, immediatamente si attiva un altro numero di telefono con cui donare due o più euro; se in un lontano paese si muore di fame, anche per quel caso c’è un opportuno numero di telefono dove donare dei soldi.

Sembra ormai che la monetizzazione, sia l’unico modo per dare occasionale “concretezza” all’impegno civile.

Questo stile monetario imperante, non poteva non abbattersi sul mondo del lavoro e, più in generale, dell’attività umana, deformandone il significato e i fini.

Mi piace allora, a questo punto, distendere il pensiero e ampliare i suoi orizzonti citando il passaggio di un testo importante del magistero della Chiesa (http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html), che pone il lavoro e l’attività umana in una prospettiva più ampia e densa di significato:

Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia esercitano il proprio lavoro in modo tale da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che con il loro lavoro essi prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia. I cristiani, dunque, non si sognano nemmeno di contrapporre i prodotti dell'ingegno e del coraggio dell'uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; al contrario, sono persuasi piuttosto che le vittorie dell'umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. Ma quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità, sia individuale che collettiva. Da ciò si vede come il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo o dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante.” (Gaudium et spes, 33)

Ecco, allora, che il sostentamento rimane presente e importante, ma non è il solo fine per il quale dedicare le migliori ore del giorno nei migliori anni della vita, in attesa di una pensione sempre più lontana.

Concludendo, penso a quante discussioni politiche ha suscitato il rischio che un “reddito” non associato a lavoro venisse erroneamente concesso dallo Stato a chi, mentendo sulle proprie condizioni, volesse accaparrarsene il diritto continuando a non voler lavorare.

Questa situazione e vecchia quanto il mondo.

E’ ben noto quanto la Chiesa, sin dalle prime comunità cristiane, avesse a cuore gli ultimi e gli svantaggiati e quanto concretamente soccorresse gli uni e gli altri, mettendo in comune i beni di tutti. Ma verso chi non voleva impegnarsi aveva una parola chiara:

Vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace.”(2 Tessalonicesi 10-12)

Mi piacerebbe che oggi, almeno nel nome della Costituzione e del suo primo articolo, prima di pensare ad ogni incentivo e ad ogni atto di governo a favore dell’occupazione, si avesse la stessa chiarezza e fierezza della Chiesa delle origini per incitare la coscienza di tutti gli italiani a non rendere precario, per bieca convenienza economica, il fondamento che abbiamo deciso di dare alla nostra Repubblica: il lavoro.

Sergio Vicàri

Informazioni sull'autore
Sergio Vicàri
sergio.vicari@leonardocompany.com
Sergio si laurea in Ingegneria Elettronica presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Dopo un breve periodo come ricercatore presso la Fondazione Bordoni entra in Selenia nel 1988. Come Software Engineer collabora allo sviluppo dell’elaboratore MARA®. Dal 1992 al 2000 è prima System Engineer e poi Project Leader nel Radar System Design Department. Dal 2000 al 2009 è Senior System Engineer nell’unità ATM & Airport Systems; nel 2007 è stato rappresentante Italiano per l’industria al Wassenaar Arrangement on Export Controls for Conventional Arms and Dual-Use-Goods and Technologies Experts Group Meeting. E’ stato Process Improvement Manager e dal 2009 al 2012 è stato responsabile dell’Unità Gestione delle Collaborazioni Scientifiche di Selex Sistemi Integrati. Attualmente è nel C.T.O. (Chief Technical Officer) della Divisione Eletronica di Leonardo S.p.A. Dal 2012 è stato rappresentante di Selex SI al "Comitato di Indirizzo Permanente per i Rapporti tra la Facoltà di Ingegneria e la Realtà Produttiva" dell’Università di Roma "ROMA 3". E’ tra i fondatori del Capitolo Italiano di INCOSE (International Council on Systems Engineering) ora incorporato in A.I.S.E. Associazione Italiana di Systems Engineering.

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