Hai un 'esperienza internazionale nel tuo curriculum vitae?
Negli anni ’80 (e successivi) il fatto di entrare a lavorare in una multinazionale o in un’azienda globale e avere l’opportunità - subito o in prospettiva - di soggiornare all’estero per lavoro su un progetto e per periodi più o meno lunghi era ambito. Significava lavorare per un’azienda importante, avere la possibilità di conoscere altre lingue e altre culture, adottare altri stili di management, venire a contatto con il management della società, che in ottica di sviluppo di carriera è un fattore molto molto importante.
Soprattutto oggi se uno ha fatto un’esperienza in altri paesi vanta un punto di merito nel suo excursus professionale rispetto a manager di altrettanta importanza che però sono sempre stati in Italia.
Alcuni pensano che sia un sacrificio.
Ricordo da neolaureata una collega ingegnere di un anno o due più vecchia di me che raccontava della società di consulenza americana che mandava a Chicago a fare dei corsi di formazione tecnica che si potevamo fare anche a Gorgonzola (MI). E’ vero! a maggior ragione oggi che si possono fare corsi anche in e-learning, ma vuoi mettere andare con dei colleghi negli USA nei mitici anni ‘80 con la limousine che ti accoglie all’aeroporto e incontri i colleghi di tutto il mondo? Io sono entrata in quell’azienda proprio per quello: in pratica per un corso a Chicago, in realtà per cosa questo rappresentava.
Ex colleghi di studi e loro famiglie ti possono considerare una pazza che si sacrifica per nulla.
Io sono dell’idea - così in ambito professionale, come in ambito personale (con i viaggi) - che sia meglio andare sul posto e conoscere piuttosto che sentirsi raccontare tutto, vedere tutto in TV e ritenere che “tutto il mondo è paese”.
Oggi (in realtà da una ventina d’anni) in alternativa c’è l’Erasmus che già durante l’università permette di vivere all’estero e si diffondono sempre di più esperienze di semestri in altri paesi anche a livello di scuola superiore.
Anche qui ci sono posizioni opposte: si studia meglio in Italia, non si perde tempo.
Ma vuoi mettere l’esperienza di vita che rimane essendo partiti a 17 anni per 6 mesi negli USA o in Australia da soli senza vedere la mamma?
E i giovani questo lo comprendono!
Un esempio per riflettere
Un esempio? Davide, ragazzo di Milano di 23 anni - quando l’ho conosciuto - fresco di laurea triennale alla Bocconi, seguita da Master in Strategie e Marketing sempre in Bocconi. Non una laurea magistrale in senso stretto, ma 5 anni di Bocconi. Ottime caratteristiche personali in termini di capacità di entrare in relazione con la gente, trascinarla (leadership!), iniziativa…. Inglese. Che altro? Voglia di lavorare anche facendo l’imbianchino nel week-end per le amiche della mamma. Appassionato di marketing, faceva stage senza un progetto professionale chiaro e senza soldi.
Con alcuni incontri abbiamo definito il filone del controllo di gestione come un “fil rouge” che avrebbe costituito una base solida per una carriera futura di tipo manageriale.
Abbiamo trovato una prima possibilità di esperienza a progetto (e solo perché lo stage dopo un anno dagli studi non era più possibile) di ben 546,00 € al mese, ma Davide dopo qualche mese “mordeva il freno” e ha quindi ricominciato a guardarsi in giro.
E quando uno è aperto le occasioni si presentano e si riconoscono!
Tra le altre ne è venuta una dall’Inghilterra che abbiamo preparato, curato, voluto. E’ andata bene. Ora Davide lavora a Londra, vive in una bella zona, non usa la macchina per andare al lavoro e … non pensa di tornare!
Il primo impatto - come mi ha testimoniato via SMS – era: “Un altro mondo!”.
Poi voleva tornare perché aveva la fidanzata qui, ora non ci pensa proprio. E’ come se fosse salito su un pianeta diverso come modo di lavorare, come regole nella vita professionale e sociale, come ambiente, gente che si incontra, modo di ragionare.
E alla base di tutto cosa c’era? La voglia, la consapevolezza che un’esperienza all’estero è fondamentale per lo sviluppo professionale … e lui non aveva fatto l’Erasmus!