Il lavoro ai tempi del Corona Virus: smart working, produttività e stili di leadership
Se la diffusione del corona virus è un autentico flagello per l’economia, oltre che per la salute della collettività, l’uso estensivo del lavoro a distanza, altrimenti chiamato “smart working” è quasi sicuramente tra le poche cose positive che il Covid-19 ci lascerà in eredità. Difficile immaginare che, risolta la crisi sanitaria, non si ritorni alla presenza sul posto di lavoro, ma sarebbe anche un vero peccato se non immaginassimo un modo diverso di conciliare lavoro e tempo libero.
Tutti abbiamo potuto constatare come il minor traffico di mezzi per lo spostamento casa-ufficio abbia delle ricadute positive sulla qualità dell’aria e sui tempi di attraversamento delle città e, seppure sia ovvio che per molte attività lo “smart working” non si possa applicare, in un’economia in cui i servizi ed in generale il terziario avanzato costituiscono una fetta rilevante del totale è possibile immaginare una società più efficiente ed orientata al risparmio energetico oltre che ad una migliore qualità della vita lavorativa.
Personalmente ritengo anche che, senza pregiudizio per la produttività individuale, anzi probabilmente avendone un beneficio, si possa anche pensare ad una minore usura delle nostre infrastrutture al collasso (strade e ferrovie in particolare), grazie al minore afflusso di mezzi di trasporto e persone.
Un fattore di freno ad uno scenario di questo genere non è la difficoltà imposta dalle tecnologie o dalla disponibilità di Internet in aree poco coperte dalla banda larga, quanto piuttosto un fattore culturale: ad essere poco propensi all’impiego del lavoro a distanza come alternativa alla presenza sul posto di lavoro non sono tanto i lavoratori, che in maggioranza sembrano favorevoli, quanto piuttosto i datori di lavoro ed i manager afflitti dalla mania del controllo sui “sottoposti”, un atteggiamento che sembra essere alquanto diffuso.
Spiace rilevare che questo modo di intendere il rapporto con i propri collaboratori non contribuisca né ad innalzare la qualità del lavoro né la produttività degli individui; infatti, invece di incentivare un comportamento virtuoso, provoca un senso di insofferenza verso il “controllore” ed il desiderio di ridurre al minimo indispensabile l’impegno per l’esecuzione degli incarichi affidati. Quindi si pone una domanda: se questo è un sentimento comune tra i collaboratori e le ricadute in termini sia di produttività che di qualità sono negative, perché non si prova una strada alternativa?
Appare chiaro che i datori di lavoro, ovvero i manager quando si parla di organizzazioni più grandi, non nutrano fiducia nei propri collaboratori ovvero abbiano una cultura distorta del proprio compito, che non è quello di opprimere e controllare, esercitando il potere del “superiore”, quanto semmai quello di ispirare con il proprio esempio, motivando le persone e facendole sentire parte di una squadra.
Incredibile a dirsi, questo è buon senso comune prima ancora d’essere una buona pratica insegnata in tutti i corsi di management, quindi viene spontaneo domandarsi come ciò sia possibile in un paese che si dibatte da decenni in una crisi di produttività che non aumenta, a differenza di quanto è successo negli altri paesi UE, se ci vogliamo limitare a quest’area del mondo.
Provare ad usare un comportamento diverso è forse più difficile del voler far credere d’essere aperti, di non discriminare i lavoratori in base al sesso o l’età e di avere splendidi meccanismi di valorizzazione dei talenti (che sono pochi) verso un migliore trattamento dei collaboratori (che invece sono tanti).
Permettere ai collaboratori di lavorare da casa propria non è una concessione o un obbligo conseguente alle disposizioni del governo per contrastare una pericolosa epidemia, quanto un’opportunità per misurare l’impatto di una diversa modalità di lavoro sulla quantità (e qualità) del lavoro prodotto. Riflettete, gente, riflettete….