Cosa voglio di più un lavoro io l’ho ...
Lucio Battisti ve lo ricordate? E' stato uno dei più famosi cantautori italiani degli anni ’70. Negli anni della mia gioventù cantava “Anna” ("Anna" di Lucio Battisti) e uno dei passaggi diceva: "Hai ragione anche tu, cosa voglio di più, un lavoro io l’ho …"
Eppure, di recente una signora, Roberta, ha scritto al Sole24Ore nella sezione Alley Oop (sono una risorsa dimenticata) mettendo in evidenza che avere un lavoro non basta, anzi.
Adesso si legge e si parla molto di discriminazioni nei confronti delle donne – soprattutto delle madri – oppure si parla di molestie di tipo sessuale sul luogo di lavoro, di licenziamenti ingiusti, delle tecnologie che consentono di rendere autonomi interi processi produttivi o servizi rendendo superfluo il ruolo umano nell’organizzazione e gestione del lavoro. Ci sono però delle situazioni che stanno in una zona tra il bianco e il nero, situazioni che sono antipatiche sfumature poco etichettabili. Tra queste c’è un fenomeno di cui non si legge mai: l’amaro far niente.
– Roberta
Quante di noi, a volte, si sentono messe da parte o, peggio, sono convinte di essere state messe da parte e stanno somatizzando questa brutta realtà.
Leggendo la storia di Roberta ho pensato non tanto a me stessa, ma a una situazione che ho vissuto come manager di azienda, in cui sono riuscita a
fare qualcosa per due donne nella condizione di Roberta.
La responsabilità è del capo
Erano gli inizi degli anni 2000 e lavoravo come dirigente di azienda in una multinazionale italiana nel settore IT (Information Technology). Ero responsabile di un gruppo di Project Manager (PM), professione questa abbastanza diffusa nel settore. In realtà il gruppo doveva essere "rifondato": formato, costruito, istruito, amalgamato, fatto crescere. Mi avevano assunto apposta!
Come molto spesso succede in azienda, le persone non le scegli ma ti vengono date. Al massimo puoi andartele a cercare all'interno in un modo più o meno strutturato. In fondo è comprensibile – aziendalmente parlando – utilizzare le persone che ci sono, anziché lasciarle da parte e prenderne altre da fuori. In più io credo nelle potenzialità delle persone, veramente. Ci credo ora - nella mia seconda carriera come coach - ma ci credevo anche allora, davvero!
I colleghi della divisione in cui operavo mi hanno fatto conoscere e incontrare diverse persone che già facevano il PM e altre che potevo prendere in considerazione anche se non si capiva bene cosa facessero, delle "Roberta" insomma. Mi ricordo ancora il racconto di una di queste, una signora di oltre 40 anni, forse anche 50, laureata in matematica, una carriera solo in quell’azienda, una delle aziende che hanno fatto l’informatica in Italia, che mi diceva di stare in un open space con altri che leggevano il giornale e guardavano il PC tutto il giorno. Che tristezza! Sia per le persone, sia per la conoscenza, sia per il patrimonio aziendale. Gettati al vento.
Due esempi dalla mia esperienza
Io ho creduto a queste due "Roberta".
Le ho fatte venire a Milano, le ho intervistate, le ho inserite nel mio gruppo, ho insegnato loro il lavoro, le ho seguite come un mentore oltre che un capo.
Me ne saranno eternamente grate. Ne sono sicura perché me lo hanno detto. Me lo ricordo perché nonostante avessero avuto tra i capi dei manager che hanno fatto una scuola di management (quella azienda era considerata una "scuola di management") mi hanno detto che sono stata la loro capa migliore.
Cosa ho fatto? Le ho guardate, ho dato loro una possibilità e non per fare del bene in realtà, ma per il bene dell’azienda innanzitutto.
Se poi ci mettessimo anche un po’ di umanità chissà come cambierebbe il mondo. Ma per ora di humanity e di wellbeing si parla solo nei convegni…