“C’era una volta il capo” di Cristina Volpi
La storia si ripete?
In realtà pare che le evoluzioni aziendali siano veramente di una lentezza “storica”.
Cosa voglio dire? Voglio dire che - nonostante si parli di nuovi modelli organizzativi, di leadership in tante differenti salse - in Italia siamo fermi, da almeno 30 anni, alla concezione del capo come l’uomo all’apice della gerarchia che governa i sottoposti come se fossero un esercito.
Sono così "strong" nella mia affermazione in parte in base alla mia esperienza personale e a quella dei miei clienti e in particolare perché qualche tempo fa mi è caduto l’occhio su un libro che conservo nella biblioteca del mio studio:
“C’era una volta il capo” – Capire e coordinare le persone in un mondo del lavoro che cambia di Cristina Volpi con la prefazione di Domenico De Masi.
E’ un libro edito dalla Fendac (Federazione nazionale dei dirigenti di aziende commerciali, cui ho appartenuto in passato) nel 1997. Avete letto bene. Libro considerato “vintage” dalle case editrici ma purtroppo attuale.
Dalla quarta di copertina:
“Centinaia di testi – sostiene Domenico De Masi nella sua prefazione a questo libro – “raccontano minuziosamente in che cosa consiste il ruolo del capo nelle tradizionali aziende manifatturiere e di servizi, dove un numero enorme di lavoratori è ammassato a tempo pieno sotto lo stesso tetto per svolgere mansioni esecutive”. Ma i tempi sono cambiati: oggi (ndr 1997!) i capi operano in aziende post-industriali sempre più reticolari e virtuali e si trovano a dover coordinare lavori flessibili e nuove figure professionali.
Il merito di “C’era una volta il capo” sta proprio nell’inserire in questa nuova realtà la figura del manager. Ci troviamo di fronte, dice ancora De Masi, al “primo manuale italiano che ripulisce la figura del capo dalle antiche scorie e la colloca in un contesto per molti versi post-industriale. (…) Mentre la maggior parte dei manuali organizzativi continua a fingere che le aziende siano reparti manifatturieri di antico conio, Cristina Volpi colloca il suo capo in uffici popolati da informatici, ricercatori, pubblicitari, comunicatori. E lo costringe a essere manager e specialista al tempo stesso, rispettoso del know-how dei suoi collaboratori. Ecco la sua attualità!”.
Il libro – che inizia con un test e si conclude con una bibliografia che spazia dalla letteratura alla psicanalisi, dai poemi cavallereschi al cinema, dal Partenone alla telenovela – suggerisce ai capi come impostare il rapporto giusto con alcune tipologie di collaboratori (professional, lavoratori indipendenti, figli dell’imprenditore, ragazzi, neolaureati in carriera, part-timer, telelavoratori, etc.) che esprimono i diversi atteggiamenti nei confronti del lavoro.
Ora, perché mi sono presa la briga di leggere (rileggere probabilmente) un testo così vecchio o di ipotetico poco valore? Perchè anche solo sfogliandolo mi sono accorta leggendo qualche brano qua e là della sua attualità.
Mi chiedo allora, ma quanta ignoranza impera ancora nelle nostre aziende? E non solo nelle PMI di prima generazione, ma anche nelle grandi aziende, in quelle multinazionali o nelle PMI di seconda e successive generazioni visto che il concetto di capo nel sentire comune (non dell’uomo della strada, ma nella popolazione dirigenziale con cui in genere lavoro e mi confronto) è così antiquata?
Ma i manager apprendono? Studiano? Fanno esperienza e cercano di dare il meglio? Si adeguano ai tempi che corrono o credono che l’azienda sia fatta dai dipendenti a tempo indeterminato con mansioni esecutive come credono i sindacati dei lavoratori e che non ci siano invece da considerare altre tipologie di lavoratori che sempre di più costituiscono la forza lavoro anche del nostro paese?
Ho sempre pensato che i sindacati (intesi come CGIL, CISL UIL etc.) pensassero soltanto agli operai e difendessero i loro diritti e che siano rimasti alle lotte operaie degli anni settanta. Ma la classe dirigente visto che si avvale di figure diverse da decenni non dovrebbe attrezzarsi per gestire la forza lavoro al meglio?
C’è voluta la pandemia per rendersi conto che alcuni potevano lavorare da casa e altri no, che lavorare da casa non è quanto si intende per “smart working”, che “lavorare” nel sentire comune è ancora “andare a lavorare” altrimenti se sei a casa puoi fare tutt’altro e forse stai facendo tutt’altro nella mente del tuo responsabile… ☹.
Insomma, sarebbe ora di avere in pratica quanto ci dice la Cristina Volpi e non solo leggerlo sul suo testo e su altri che di sicuro ci sono e stupirsi quando nella realtà si incontra qualche best case di gestione di popolazioni di lavoratori “anomali”. Peccato che il mondo – almeno quello occidentale – stia andando verso una popolazione lavoratrice per metà dipendete e per metà autonoma. Sarebbe il caso di aprire gli occhi?
Mi sembra di vivere in tempi che tendono al crepuscolo anziché all’alba e non per la ripresa dell’Afghanistan da parte dei talebani, ma per la poca attenzione concreta verso le varie tipologie di lavori possibili e attuali e verso le donne e i giovani nell’Italia del 2021.
Che fare? A parte accorgersi della situazione – la consapevolezza è sempre il primo passo – direi che un po' di studio non farebbe male. Non per niente adoro i libri e continuo a leggere. Ok la rete e i social ma mai come oggi mi accorgo che l’approfondimento passa dal proprio tempo speso a scandagliare varie fonti per farsi una propria idea.
Il libro in questione poi è proprio ben fatto.
Parte con un test, io li adoro, non quelli dei magazine ma quelli che si usano in azienda. Poi dedica un capitolo a varie tipologie di lavoratori che vengono classificati come:
1.Lavoro come passione – i professional, quelli che lavorano per una causa, i professionisti dello sport, i romantici
2. Lavoro come opportunità – i neolaureati in carriera, i figli dell’imprenditore, i temporanei, gli indipendenti
3.Lavoro con noncuranza – i ragazzi, i part-timer, i telelavoratori
Infine, dedica una parte a tante fonti diverse che possono ispirare le menti “smart”, un po' come i libri per me.
Insomma, da leggere! E soprattutto da mettere in pratica finalmente.
E GoodGoing! ?
E qui viene il bello...
Cambiare lo stile di leadership, adeguarlo all'organizzazione per cui si lavora o si va a lavorare non è un cambiamento che si fa "overnight" o leggendo un paio di post.
L'Executive Coaching è lo strumento che noi proponiamo. Provare per credere! Contattateci senza impegna a info@goodgoing.it.