5 fasi per un processo di onboarding efficace – Verso il primo anniversario
Questo articolo conclude la serie dedicata ai processi di onboarding, ma avremo comunque modo di tornarci in futuro per esaminare altri aspetti di un processo rilevante non solo ai fini della continuità, ma anche a quelli dell’affermazione di qualunque tipo di organizzazione, imprese a fini di profitto in primis. Se ritenete che stia esagerando, guardate con quanta enfasi si seguono sui media le campagne di acquisto e cessione dei calciatori, in particolare quelle che riguardano le squadre considerate in grado di competere per la vittoria del campionato. Ai nuovi acquisti si affidano spesso le speranze per affermare la continuità di una supremazia conseguita nel campionato precedente, ovvero quelle di ribaltare i rapporti di forza da parte delle altre squadre.
In effetti un nuovo acquisto, se indovinato, può significare un oggettivo rafforzamento di un comparto e dunque migliore competitività della squadra, così come uno che deluda le aspettative potrebbe gettare nella costernazione squadra e tifoseria. Analogamente i nuovi collaboratori, grazie alla propria qualificazione, possono portare non solo una ventata di energie nuove in un team cui necessita una spinta per restare al top o un contributo per completare lo schieramento in campo, ma sono realmente in grado di contribuire (quando non di determinare) il risultato finale. Ecco perché occorre prestare al processo di onboarding un’attenzione adeguata.
A luglio la pubblicazione dei primi articoli, di cui il secondo sulla fase di attrazione, ovvero quella in cui dobbiamo individuare all’esterno della nostra organizzazione uno o più collaboratori da portare a bordo; poi abbiamo scritto cosa sia opportuno fare per confermare le intenzioni (non sono rari i casi di ripensamento) ovvero le azioni da intraprendere prima del primo giorno di lavoro, cui hanno fatto seguito articoli dedicati al primo giorno di lavoro, ai giorni seguenti della prima settimana ed al periodo di prova.
Verso il traguardo del primo anno
Ora il periodo di prova è giunto al termine e si tratta di comunicarne la conclusione. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di un fatto formale, ma, se qualcosa non fosse andato per il verso giusto, è preferibile prendere una decisione in questa fase piuttosto che in seguito, nonostante la delusione, il tempo perso e la necessità di ricominciare daccapo.
I programmi di onboarding più completi, e tra questi il nostro, considerano il primo anno di lavoro ed il primo anniversario lavorativo come scadenza dell’intero processo. Alcuni studi hanno riportato come il 23% dei collaboratori che non hanno seguito un processo di onboarding qualificato lascino il loro incarico entro il primo anno dal loro inserimento. Il primo anniversario diventa, di conseguenza, una grande opportunità per riflettere sugli obiettivi raggiunti, pianificare gli sviluppi futuri e celebrare la ricorrenza.
I miei primi anniversari lavorativi
A questo proposito, se ritorno con la memoria ai primi dodici mesi di lavoro prestati nel corso della mia carriera professionale presso diverse società, si è trattato quasi sempre di un tempo entro il quale sono accaduti fatti significativi.
Nel primo caso che vi espongo fui uno di quelli che abbandonarono il proprio impiego per migrare in un’altra società alla scadenza dei primi 12 mesi. Le ragioni non furono da imputare ad un lacunoso processo di inserimento, alla scarsità di formazione o ad una brutta esperienza con i colleghi, tutt’altro, al punto che lasciare quell’incarico mi costò molta sofferenza. A cominciare dal rapporto con i colleghi, con alcuni dei quali sono tuttora in rapporti di amicizia, con i miei superiori, per proseguire con i processi di inserimento e quindi con la formazione, considero tutt’ora quell’esperienza come una delle più positive. Vi domanderete allora perché lasciare? In questo caso valutai (correttamente) che il team nel quale ero inserito era sì una punta di diamante di quell’organizzazione, ma al prezzo di un’importanza relativa attribuita alle soluzioni di office automation avanzate che rappresentavamo rispetto al core business, più semplice da gestire e, a quell’epoca, ancora molto profittevole (si trattava di uno tra i più grandi produttori di copiatrici). Le cose sarebbero cambiate di lì a poco e, volgendo lo sguardo al futuro, avevo identificato un’azienda in cui il focus coincideva con quello dei prodotti che ero chiamato a rappresentare sul mercato. Il risultato consistette in una migrazione consistente (4 colleghi su 10) ed io non fui il primo ad andarmene.
Presso il mio nuovo datore di lavoro pagai lo scotto dell’ultimo arrivato, cedendo nel primo anno metà delle commissioni guadagnate ad un collega che aveva la responsabilità delle holding di partecipazioni di cui erano parte i clienti assegnati. Ma il primo anniversario coincise anche con la possibilità di cambiare radicalmente il corso della mia carriera. Infatti, l’uscita forzata di un collega lasciò vacanti alcuni clienti internazionali che erano insoddisfatti del servizio e del livello di supporto. I miei buoni riscontri valsero l’assegnazione di quei clienti, ma siccome ero reputato poco esperto e la responsabilità del risultato economico che andavo acquisendo era rilevante, fui affiancato da un coach della filiale olandese che mi trasmise i fondamentali sulla gestione dei large account (i grandi clienti), i processi di gestione delle trattative inclusi i criteri di negoziazione, e la vendita a valore. Per rafforzare le mie competenze fui iscritto a corsi organizzati da reputate società di formazione manageriale ed iscritto ad un corso di lingua inglese, che parlavo stentatamente nonostante i vari anni di studio scolastico. Seppure questi fatti accaddero dopo il mio primo anniversario, è a quello che feci nei primi dodici mesi che debbo questo cambiamento. Traspare con evidenza l’importanza della formazione (e del coaching) nell’ottenimento di questo risultato.
Il seguito fu una crescita professionale ed economica importantissima, con stipendio quasi raddoppiato ed un piano di incentivi altamente remunerativo. Per 5 anni consecutivi figurai tra i migliori commerciali in Europa, assicurandomi viaggi premio e celebrazioni che rafforzarono l’autostima e favorirono la mia carriera.
Alla fine degli anni ‘80 dello scorso millennio, la storia dell’informatica cambiò radicalmente per l’avvento del PC di IBM e del sistema operativo di Microsoft (l’MS/DOS) destinato a far scomparire dal mercato marchi gloriosi che avevano centrato la propria gamma di computer su sistemi operativi proprietari e architetture basate su una CPU centralizzata. Anche in questo caso avevo intuito cosa sarebbe accaduto e decisi di cambiare società e tipologia di lavoro, all’apice dei risultati commerciali, aderendo all’offerta di una piccola (in confronto) società di consulenza impegnata nella commercializzazione di strumenti per lo sviluppo accelerato di applicazioni software con metodologia waterfall concepita da James Martin (il CASE – Computer Aided Software Engineering).
Ricordo che, nel corso del primo anno di lavoro, nonostante l’impegno profuso, facevo fatica a comprendere le dinamiche di business della mia nuova società e che la partecipazione alle riunioni interne mi dava la sgradevole sensazione di essere atterrato in un mondo alieno. Il disagio era anche acuito dalla mancanza di strumenti informatici in uso ai collaboratori: ero tornato ad un impiego “tradizionale” in cui molte attività erano assegnate alle segretarie, chiamate a “dattiloscrivere” le proposte tecniche e commerciali ed inviare le e-mail. Alla mia richiesta di poter disporre di un PC l’amministratore delegato rispose che non c’era ragione per assegnarne uno ai commerciali perché l’uso era riservato ai “tecnici” (i consulenti) ed alle segretarie. Qui dimenticai molte delle nozioni che avevo appreso in precedenza e la formazione assunse una connotazione prevalentemente tecnica, ma ero comunque “immerso” in un laboratorio che formò colleghi valentissimi, che compirono in seguito e presso altre società una carriera veramente ragguardevole.
Comunque, anche presso questa società, da cui prese il via dopo una fusione un’altra storia importante, quella di Ernst & Young Consultants dove avrei lavorato negli anni successivi, ebbi modo di conseguire buoni risultati di vendita che mi stimolarono a far bene e mi consentirono di entrare nella nuova compagine con il ruolo di manager e una dote di rilievo senza la quale non avrei avuto quella possibilità, provenendo da un ruolo di venditore anziché di consulente.
Altro anno da neofita, comunque, perché in Ernst & Young Consultants non c’era continuità con il passato ed ebbi da apprendere nel primo anno più di quanto ero stato in grado di fare nei primi dieci anni della mia carriera. Anche qui accadde qualcosa che avrebbe dato forte impulso alle mie competenze, ovvero l’incontro, avvenuto prima di questo passaggio, con il managing partner di una delle società confluite nella neocostituita società di IT Consulting, l’australiano di origine David Mathie, consulente di alto livello e uomo dalla forte personalità nonché autore di svariate pubblicazioni.
Fu lui ad insegnarmi tecniche e metodi per l’analisi e la soluzione di problemi complessi, imponendomi di arrivare a concepire le soluzioni attraverso una sequenza ordinata di passi logici. Certo sarebbe stato per lui più semplice suggerirmi la soluzione delle situazioni che gli rappresentavo anziché guidarmi ad arrivarci per conto mio, ma in questo modo apprendevo con rapidità ad affrontare situazioni sempre più difficili. Una lezione di vita, oltre che professionale, che ha caratterizzato più di ogni altra la mia esistenza e che, ancora oggi, svolge un ruolo rilevante nelle cose che so fare e che debbo a lui più che ad altri. Un vero e proprio percorso formativo attraverso sessioni di coaching “dedicate” più efficace di tanti master offerti da celebrate business school. Lo dico a ragion veduta anche per aver avuto la possibilità di apprendere, a metà degli anni ‘90, tecniche di marketing avanzato durante un secondment di 6 mesi presso l’Headquarter di EY a New York, in cui ricevetti insegnamenti da affermati docenti universitari. Ma questa è un’altra storia.
Ecco quindi spiegata, con esempi pratici, la rilevanza dei primi dodici mesi in una nuova organizzazione. La potete leggere con gli occhi di chi ci è passato attraverso, oppure con quelli di chi è chiamato a gestire l’inserimento di nuovi collaboratori nella vostra organizzazione.
Lessons learned: investite risorse per fare crescere i vostri talenti. Riconoscete i progressi dei vostri collaboratori. Fatelo con regolarità.
I team (le unità di business) che concentrano le proprie energie nel garantire che i collaboratori siano soddisfatti, stimolati, ascoltati e abbiano opportunità di sviluppo, promuovono un'esperienza positiva e una maggiore probabilità che essi (dipendenti e non) vogliano restare con la vostra organizzazione.
Se avrete dato modo alle persone di tirar fuori il meglio delle proprie capacità, la crescita complessiva delle performance del team sarà riscontrabile in un beneficio per tutta l’organizzazione con riscontri positivi anche sui risultati economici che ne deriveranno.
Anche in questo articolo conclusivo non manca una checklist per il primo anniversario lavorativo che potete scaricare al collegamento riportato qui sotto.
La check list del primo anniversario (0 kb.)
Già pubblicati:
- 5 fasi per un processo di onboarding efficace – Introduzione
- 5 fasi per un processo di Onboarding efficace - Prima del primo giorno
- 5 fasi per un processo di onboarding efficace - Il primo giorno di lavoro
- 5 fasi per un processo di onboarding efficace – la prima settimana di lavoro
- 5 fasi per un processo di Onboarding efficace - Il periodo di prova (anche ai tempi dello smart working)